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- Scritto da Salvo Bella
Le tracce di dna che hanno portato alla condanna di Massimo Bossetti all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio sono inutilizzabili: lo sostengono molti giuristi, come peraltro aveva fatto la difesa dell’imputato. Il processo ha evidenziato gravi lacune nelle indagini, anche per il modo spregiudicato di far valere come prove elementi sottratti al pieno contraddittorio. “Bisogna dire no – afferma senza mezzi termini il giudice Gennaro Francione nell’intervista esclusiva che ci ha concesso – ai metodi senza garanzie reali, che fanno rivoltare nella tomba Voltaire, ancora in attesa dopo 250 anni che i suoi principi siano applicati radicalmente”. La questione di fondo, largamente dibattuta, sfiora il caso Bossetti, ma ha implicazioni allarmanti per molti altri imputati che si trovano in carcere pur in presenza di forti dubbi sulla loro colpevolezza.
I miliardi spesi servono a poco senza trasparenza
Su Bossetti, il biologo forense e criminalista Eugenio D’Orio sostiene: “Anche ammesso che le fasi della repertazione e della catena di custodia del reperto contenente la traccia 31G20 siano andate a buon fine, e soprattutto sia stato garantito all’imputato di prenderne visione tramite i suoi consulenti, si dovrà necessariamente indagare che tipo di legame ha quella data traccia genetica con l’atto delittuoso per il quale si indaga. Inoltre, la mancata concessione delle perizie nel precedente grado di giudizio rappresenta una gravissima lacuna cagionata in danno del signor Bossetti dal punto di vista investigativo-scientifico”.
D’Orio ritiene tuttavia che sia possibile e necessario, rimediare a taluni lacune: “Anche se sarà appurata la bontà della traccia 31G20 (la quale è ancora carente se la si vuole ascrivere con scientifica certezza alla traccia dell’offender di Yara) nello specifico, vista la dinamica dell’aggressione, gli altri reperti ancora in uso alla Procura saranno determinanti per dare chiarezze scientifiche di tipo oggettivo ed universale, non più di tipo meramente indiziario, come costituito dalla suindicata traccia”.
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- Scritto da Eugenio D'Orio
L’ambiguità degli accertamenti “scientifici” sui delitti è al centro di un importante dibattito fra giuristi, biologi e altri esperti della complessa materia. Il giudice Gennaro Francione, direttore del "Movimento di neorinascimento della Giustizia", strenuo sostenitore dell'epistemologia del filosofo austriaco Karl Raimund Popper, dal quale prende le mosse, va sviluppando il tema della criminologia dinamica, con notevoli implicazioni per le attività processuali e il sistema giudiziario attuale, che viene messo apertamente in discussione. Il magistrato è noto e apprezzato anche per decine di saggi e notevoli opere di narrativa. Al dott. Eugenio d’Orio, noto biologo forense e criminalista (molti gli studi all'estero, ora ammesso come ricercatore all'Università di Copenhagen) che collabora in questi studi col giudice Francione, abbiamo chiesto un articolo, che qui pubblichiamo.
Neorinascimento della Giustizia
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Grazie al progresso tecnologico-scientifico, ad oggi si è in grado di sviluppare metodologie di indagine che prima erano comunemente ritenute “fantascientifiche” ovvero “utopiche”.
Ad oggi, gli investigatori di tutto il mondo si possono giovare di nuovi ed avanguardistici sistemi, tecnologie ed approcci scientifici quando devono porre in essere le indagini per un dato delitto.
Il vero boom della scienza forense, ossia la scienza applicata alle indagini, si ebbe con l’avvento del DNA e delle tecnologie identificative ad esso correlate. Tali tecniche, poste in essere solo da un ventennio a questa parte, sono correntemente perfezionate e migliorate ed hanno la peculiarità di rendere possibile l’identificazione di un individuo in maniera univoca e scientificamente certa.
Oltre a ciò grande importanza è data dal fatto che tali tecniche forniscono anche la possibilità di identificare il tipo di tessuto biologico, il cui uso a fini forensi è davvero di inestimabile valore.
Ancora, le più moderne tecniche sono volte alla valutazione delle posizioni nello spazio relative delle diverse evidenze biologiche rinvenute in un dato reperto o luogo.
Visto il grandissimo successo applicativo delle suindicate tecniche scientifiche in ambito forense, anni fa, cavalcando il clamore di quest’importante ausilio proveniente dalla scienza e dai suoi risultati, i media bombardarono i mezzi di informazione parlando di “prova regina”, grazie alla quale tutti i misteri sono svelabili, e tutte le indagini si possono concludere in maniera certa e giusta, assicurando il reo alla giustizia. Nel corso degli anni, inoltre, il DNA o cosiddetta “prova regina” fu determinante per dimostrare l’innocenza di soggetti condannati per gravissimi delitti (tra cui moltissimi casi di omicidio e stupro) i quali avevano sempre, a gran voce, dichiarato la propria innocenza senza esser creduti.
Leggi tutto: La criminologia dinamica popperiana ovvero contro l'onnipotenza del DNA
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- Scritto da Super User
I notiziari delle emittenti televisive hanno nascosto oggi la notizia del singolare gesto di un ex imprenditore bulgaro, Martin Advinski di 50 anni, che si è arrampicato sul tetto della Scala a Milano per sostenere il "no" al referendum. I tg della Rai hanno taciuto per tutta la giornata, mentre le agenzie di stampa e i più importanti giornali continuavano a informare sin dal mattino di che cosa stava accadendo nel capoluogo lombardo, un curioso gesto di dimostrazione che aveva mobilitato in forze carabinieri, polizia e vigili del fuoco.
Solo il tg di Sky, nell’edizione delle ore 14, ha diffuso in diretta la notizia, mostrando anche, in un collegamento diretto con la piazza della Scala, le immagini, con i tre striscioni esposti dall’uomo. La notizia, però, è poi sparita per tutta la giornata nelle altre edizioni, anche dalla striscia dei titoli che durante la trasmissione scorrono a nastro nella parte bassa dello schermo.
Non si sa se l’autore della dimostrazione avesse realmente minacciato di volersi lanciare nel vuoto dal tetto. Col passare delle ore, tuttavia, si faceva sempre più pressante l’esigenza di eliminare gli striscioni e di fare scendere l’uomo, ponendo fine a un episodio eclatante ed evitando che la notizia facesse il giro del mondo.
Le trattative delle forze dell’ordine con l’ex imprenditore si sono rivelate infruttuose. Dopo parecchie ore, finalmente, un ufficiale dei carabinieri è riuscito a bloccare il dimostrante, sottoposto subito a visita al Policlinico: prevedibile epilogo, sarà sottoposto a trattamento psichiatrico.
Ci sarà anche uno strascico giudiziario per occupazione di terreni ed edifici; ma la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai dovrebbe spiegare se è normale che il servizio pubblico nasconda ai cittadini un avvenimento di tal genere, anche se poi attribuito sbrigativamente a un matto.
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“L'impressione è che possa trattarsi di un gesto simbolico, senza alcuna concreta valenza intimidatoria”: così la polizia definisce l’ordigno piazzato a Roma all’esterno dell’appartamento dell’avv. Paolo Saolini, responsabile degli affari legali del vicesindaco nella giunta pentastellata di Virginia Raggi. Lo riferisce l’Agenzia Italia. Questo tipo di valutazione è spiegato con la precisazione che il reperto è un congegno elettrico di accurata fattura confezionato per fare scoppiare una bomba, ma privo di esplosivo: una riflessione particolarmente allarmante se a farla sia la Digos, cioè l’ufficio politico della questura, quasi che senza devastazioni non possano esserci atti intimidatori.
Sorge il dubbio che diversa sarebbe stata l’interpretazione da parte di chi indaga se l’accaduto avesse riguardato non il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo ma il collaboratore di una giunta comunale filogovernativa; o sarebbe bastata una pisciata dietro una porta di casa di Matteo Renzi per fare uscire dalle caserme anche i carri armati e diffondere interminabili messaggi di solidarietà e gridare al nemico in agguato.
Non è la prima volta che, col ministero degli Interni ad Angelino Alfano, in molti uffici di polizia si registra la tendenza a fare passare sotto gamba episodi di minacce gravi. Il dirigente del commissariato di Legnano, Francesco Anelli, è arrivato a sostenere che ricevere per posta un proiettile con un biglietto intimidatorio non costituisce un pericolo: con questa e con altre affermazioni false sminuiva la credibilità del mio libro “Yara, orrori e depistaggi” sull’omicidio di Yara Gambirasio, che ambienti oscuri cercavano di bloccare.
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La ministra Beatrice Lorenzin continua a trovare opportunità per mandare ispettori a ogni scandalo che scoppia negli ospedali italiani, ultimo quello raccapricciante di Patrizio Cairoli, lasciato morire come un verme all’ospedale San Camillo di Roma. La sanità è diventata ormai come una bolgia infernale, poiché da un taglio all’altro s’è passati a uno squallore estremo e all’indecenza: posti di pronto soccorso dove i pazienti aspettano ammassati per ore interminabili prima di essere visitati; mutilazioni e omicidi dei più assurdi in sale operatorie che si rivelano all’improvviso come macelli per bestie; attese anche di anni per ottenere una visita tranne che non si metta subito mani al portafogli. Una situazione di sconquasso così grave avrebbe dovuto indurre nella ministra Lorenzin un sussulto.
La senatrice del M5S Paola Taverna ha presentato un’interrogazione alla ministra, scrivedo che “la triste storia dell’uomo malato terminale di tumore morto nel pronto soccorso dell’Ospedale San Camillo di Roma dopo 56 ore di degenza, e denunciata in una lettera del figlio al ministro Lorenzin, è l’emblema della drammatica situazione in cui versa l’intero sistema sanitario nazionale, che non è più in grado di assicurare né le cure né l’assistenza necessaria in nessuna fase della malattia, tanto meno in quella terminale”.
“Già lo scorso anno – scrive la senatrice – la stampa denunciò le pessime condizioni del San Camillo e dall’ospedale risposero che le condizioni di disagio erano causate dai lavori di adeguamento della struttura in vista del Giubileo. Ma dopo un anno nulla è cambiato, segno che questa situazione come tante altre è il frutto di precise responsabilità del governo e delle sue scelte in materia di sanità: tagli pari a 4,3 miliardi di euro solo negli ultimi due anni e lo spettro di altri 1,5 miliardi con la prossima legge di Bilancio, oltre 200 visite specialistiche che diventano a pagamento, ticket sempre più cari. La conseguenza è che la sanità è al collasso e oltre 11 milioni di italiani rinunciano a curarsi. Per questo chiediamo ancora una volta alla Lorenzin di abbandonare la sua scellerata politica di tagli e di incrementare il Fondo per il Servizio sanitario nazionale così da evitarne il definitivo collasso”.
L’invio degli ispettori è, oggi come in passato, un fumo negli occhi dell’opinione pubblica sconcertata, come a dare a intendere che un governo stia assicurando ai cittadini la massima assistenza e non tolleri pertanto alcun caso sporadico di malasanità. La verità, a tutti chiara, è che di fronte alle carenze sempre più gravi e diffuse un ministero dovrebbe intervenire con urgenza e in modo serio a rivoluzionare la disorganizzazione nella quale si è diffusamente precipitati. Sono comprensibili gli spot allegri, ma a volte anche esilaranti e osceni, di Beatrice Lorenzin e anche le sue chiacchiere nei salotti televisivi; ma si richiederebbe pure che da anonima cittadina si faccia venire ogni tanto un capogiro e ripari negli ospedali di varie città, uno dopo l’altro (ovviamente non in quelli che ha chiuso), o telefoni ai vari call center regionali per capire quanto tempo passa per ottenere una visita dermatologica. Se non fa anche questo, eviti almeno di autoincensarsi nei salotti; o infine abbia la dignità di dimettersi, perché i reati non sono soltanto quelli commessi da poveri diavoli che rubano due fette di mortadella al supermercato: ci sono quelli, molto più raccapriccianti, che colpiscono giornalmente la vita dei cittadini.
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Una conversazione radiofonica sul libro “Yara, orrori e depistaggi” del giornalista Salvo Bella nella trasmissione “Border Nights” si è trasformata ieri sera in una pesante critica alle indagini sull’uccisione di Yara Gambirasio e sul discusso processo al presunto assassino Massimo Bossetti. Si è parlato di testimoni intimiditi, esigenza di allontanare ombre nere dalla Lombardia, banchetti con magistrati e mafiosi, macchinazioni, vittima sacrificale, spettacolarizzazioni inedite, omicidio politico.
Cominciata alle 22,50 a WebRadioNetwork, Border Nights, che va in onda ogni martedì, è curata dal giornalista Fabio Frabetti e affronta abitualmente casi scottanti, permettendo agli ascoltatori di intervenire in diretta. La puntata di ieri sera era stata annunciata per diversi giorni insistentemente attraverso i social network, dove trovano ampio spazio le discussioni fra innocentisti e colpevolisti sulla recente condanna di Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’audience era perciò elevatissima, con innumerevoli ascoltatori collegati anche dall’estero fino a notte.
Salvo Bella, compulsato dal conduttore, ha parlato delle analisi da lui compiute sul delitto sin dal momento della sparizione di Yara, avvenuta misteriosamente a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, la sera del 26 novembre 2010. C’erano, secondo Bella, diffusi fenomeni di evidente incompatibilità ambientale, che si manifestarono attraverso veri e propri depistaggi, manovre più o meno oscure per allontanare dalla verità avvalorando l’ipotesi, tuttora incredibile secondo lo scrittore, di un omicidio a sfondo sessuale e così nascondendo il vero movente e i veri colpevoli.
Fabio Fabretti ha ricordato che Bella fu minacciato perché si voleva impedire la pubblicazione del libro. L’autore ha spiegato di non avere ricevuto poi querele dai personaggi da lui chiamati in causa, ma avrebbe subito persecuzioni da parte di apparati dello Stato.
Sono intervenuti nella trasmissione l’avv. Paolo Franceschetti, noto criminologo e ospite fisso di Border Nights, il medico Agnesina Beatrice Pozzi, che dirige l’Osservatorio web sul diritto e i diritti negati, e dalla Francia la psicologa Elisabeth C.
Franceschetti, che è autore di numerosi libri e si occupa in un blog di mafia e massoneria, ha inquadrato i depistaggi rivelati da Bella in una situazione di gestione della giustizia terrificante. Un passo evidente di una trama sporca c’è stato, secondo il giurista, con la spettacolarizzazione dell’arresto di Massimo Bossetti, mostrato a tutto il mondo ammanettato e in ginocchio, in più annunciato dal ministro degli Interni Angelino Alfano in spregio a tutte le norme costituzionali. Nell’acuto commento, Franceschetti ha sostenuto che Bella avrebbe chiarito con coraggio la natura politica dell’omicidio di Yara Gambirasio.
Bella scrisse alla fine del 2013 il libro, uscito poi a febbraio dell’anno dopo in una nuova collana di Gruppo Edicom, quando ancora non era stato arrestato Massimo Bossetti, che fu a suo parere la vittima predestinata della seconda parte delle indagini. Su queste si è soffermata Agnesina Beatrice Pozzi, mettendo in luce presunte assurdità nell’attribuzione a Massimo Bossetti delle tracce di dna rinvenute sugli indumenti della povera Yara nel febbraio del 2011, quando il cadavere della ragazza fu trovato in un campo di Chignolo d’Isola, nel Bergamasco. Per tre mesi, aveva appena detto Bella, il questore dell’epoca, che dirigeva le indagini, aveva sorprendentemente affermato che avrebbe riportato viva a casa la ragazza. La dott. Pozzi, che si è occupata in passato professionalmente di numerosi casi clamorosi, fra i quali quello del questore palermitano Bruno Contrada, è entrata con cognizione di causa nelle questioni scientifiche, sostenendo con vari argomenti l’innocenza dell’imputato Massimo Bossetti, argomento affrontato poi anche da Elisabeth C, che ha invitato l’autore di “Yara, orrori e depistaggi” a continuare la sua inchiesta.
Furgone tarocco, vittima sacrificale e altri elementi oscuri delle indagini sono stati in ultimo gli ingredienti della pagina conclusiva di “Maestro di dietrologia”, che ha sollevato domande ancora senza risposta.
La registrazione della tramissione, ascoltabile ora in podcast a WebRadioNetwork, per i contenuti duri e per la chiamata in causa di apparati dello Stato, potrebbe essere acquisita dall’autorità giudiziaria per l’apertura di indagini.
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Il clamore sul delitto di Chiara Poggi, massacrata il 13 agosto 2007 nella sua casa a Garlasco, sembra destinato a non esaurirsi anche dopo la condanna definitiva a 16 anni di reclusione inflitta il 12 dicembre 2015 dalla Cassazione al fidanzato della ragazza Alberto Stasi. Gli atti delle indagini che portarono ai tre processi potrebbero ora tornare in tribunale a Pavia, dove sette persone devono rispondere di diffamazione aggravata dall’attribuzione di fatti specifici, dalla continuazione e dal mezzo della stampa, per alcuni commenti espressi fra il 2011 e il 2012 nel gruppo di Facebook “Delitto Garlasco: chiediamo giustizia per Chiara Poggi”.
La giustizia, com’è noto, non è riuscita a delineare in via definitiva un movente dell’omicidio, che tuttavia nei processi di primo e secondo grado si inquadrava in una vicenda di materiale pedopornografico trovato allo Stasi, che Chiara Poggi avrebbe scoperto. Stasi fu condannato, in quanto a ciò, in primo e in secodo grado, ma la Cassazione in ultimo lo assolse nel 2014 ritenendo che la detenzione di quel materiale fosse lecita.
All’epoca del delitto erano esplose numerose polemiche su talune modalità delle indagini e su contrasti nell’Arma dei carabinieri, con denunce reciproche fra un maresciallo e un ufficiale: pagine nere, complicate dal sospetto – poi mai rivelatosi fondato – che alcuno avesse voluto sviare le indagini per mettere al riparo dai riflettori e da eventuali conseguenze giudiziarie lo stesso Alberto Stasi e persone a lui legate in un cerchio di amicizie, anche in ambienti influenti della politica nella provincia di Pavia. Una di tali persone, in particolar modo, fu più volte interrogata sperando che potesse rivelare qualche utile retroscena dell’omicidio e contribuire a far luce sulla questione del materiale pedopornografico e sui suoi contatti col fidanzato di Chiara nei giorni e nelle ore antecedenti il delitto. Il sostituto procuratore generale Laura Barbaini, nella memoria depositata alla Corte d’assise d’appello di Milano nel secondo processo che doveva giudicare Stasi, ha ritenuto che il testimone era stato reticente, per nascondere un problema di particolare gravità.
RETROSCENA A LUCI ROSSE E TESTIMONI RETICENTI
I retroscena delle immagini a luci rosse erano stati fustigati dalla stampa e dall’opinione pubblica, sconcertata dalle evidenze che trapelavano. Questo senso civico espresso nel gruppo di Facebook “Delitto Garlasco: chiediamo giustizia per Chiara Poggi”, ma anche in molti altri, ha trascinato nell’ondata di indignazione un numero elevatissimo di persone di ogni classe sociale e di varie città, non solo italiane. A dolersi di tutto ciò è poi stato però uno dei testimoni duramente censurati dall’autorità giudiziaria, il quale ha presentato querela chiedendo la condanna di alcuni autori di quei commenti.
Due sono i procedimenti in corso a Pavia per diffamazione, a conclusione delle indagini preliminari, e le posizioni degli indagati sarebbero differenziate: alcuni puntano alla possibilità di una conciliazione con il querelante e alla remissione della querela; altri lascerebbero che la vicenda giudiziaria proceda per inerzia fino alla prescrizione, che interverrebbe fra pochi mesi; altri, ancora non a giudizio, chiedono il proscioglimento immediato e se questo non ci sarà potrebbero dare battaglia in un dibattimento perché si faccia luce sui retroscena morbosi del delitto.
Fino a oggi non è caduto il sospetto che siano rimaste impunite, per vari motivi, altre persone coinvolte a vario titolo nell’orrendo omicidio di Chiara Poggi.
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Il libro del giornalista Salvo Bella "Yara, orrori e depistaggi", sull'omicidio di Yara Gambirasio, sarà al centro di un dibattito della trasmissione Border Nights a cura di Fabio Fabretti, in diretta martedì 27 settembre dalle 22,30 su http://webradionetwork.eu/.
Potranno intervenire anche gli ascoltatori.
Il libro, com'è noto, è stato scritto e pubblicato prima dell'arresto di Massimo Bossetti, recentemente condannato in primo grado all'ergastolo per l'omicidio. L'autore compie un serrato esame delle indagini, che sin dalla prima fase presentarono gravi incogruenze e sono tuttora oggetto di accese discussioni.
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L'orrenda morte di Yara Gambirasio e la recente condanna in primo grado di Massimo Bossetti all'ergastolo continuano a dividere l'opinione pubblica fra innocentisti e colpevolisti. Sui social, e in particolar modo su Facebook, c'è un'ondata di gruppi che esaminano atti processuali e raccolgono documenti pro o contro l'imputato, mentre ancora si attende che sia depositata la motivazione della sentenza di condanna.
Sulla responsabilità del muratore, che si professa innocente, permangono obiettivamente dei dubbi che il dibattimento non avrebbe risolto, sia su talune modalità controverse di svolgimento delle indagini, sia sulla cosiddetta "prova regina" delle tracce di dna rilevate sul cadavere della ragazza e ricondotte dall'accusa proprio a Massimo Bossetti.
La questione che continua a essere affrontata in particolar modo è proprio quella del dna, esame del quale l'avv. Claudio Salvagni e gli altri difensori avevano chiesto inutilmente la ripetizione. Un gruppo chiuso di Facebook, al quale partecipano anche esperti delle materie in questione, ha pubblicato una sorta di petizione divulgata poi su molte altre pagine pubbliche. Eccola integralmente.
CASO BOSSETTI, MAGGIORE TRASPARENZA ED EQUO PROCESSO
Abbiamo, purtroppo, il forte sospetto che Massimo Bossetti sia stato incastrato da qualcuno. Non veniteci a chiedere da chi, perché, come e quando. Non lo sappiamo e non è compito nostro accertarlo. Può essere stato chiunque, e noi speriamo che gli inquirenti, i quali si sono resi protoganosti di una lodevole e complessa attività di indagine, riescano quanto prima ad individuare il o i soggetti responsabili. Pur non avendo prove dirette a suffragio di questa nostra ipotesi, avendo acquisito diversi pareri da diversi genetisti forensi (assolutamente obiettivi e imparziali), abbiamo però diversi elementi indiziari di carattere scientifico e non che ci inducono a ritenere che questa ipotesi sia seriamente da prendere in considerazione; segantamente: 1) riferisce il prof Capra che nella traccia biologica mista denominata 31G20, il DNA nucleare della vittima è risultato essere fortemente degradato mentre quello di “ignotouno” altamente cellularizzato, di ottima qualità e quantità. Circostanza, quest'ultima, asseritamente anomala che fa propendere per il deposito NON contestuale dei rispettivi materiale biologici. 2) Nella loro relazione, i RIS di Parma, a pag 267, rilevano che "appare quantomeno discutibile come ad una degradazione proteica della traccia non sia seguita una degradazione del DNA". Sono gli stessi RIS, quindi, a nutrire perplessità in ordine alla circostanza che la traccia risultava essere totalmente degradata a livello proteico (tanto è vero che NON è stato nemmeno possibile, se non per esclusione, risalire al fluido di appartenenza) a fronte di un profilo genetico nucleare ( “ignotouno”) che, invece, risultava essere stato estratto da materiale biologico fortemente cellularizzato, di ottima quantità e qualità. Anche questa circostanza fa propendere per la conclusione che quel frammento di materiale biologico rinvenuto in quella traccia fosse di origine NON naturale. 3) Il materiale biologico dal quale è stato ricavato il profilo genotipico nucleare (quello che volgarmente viene definito DNA nucleare) denominato “ignotouno” pare sia completamente esaurito: circostanza che appare piuttosto peculiare a fronte della relazione dei RIS in cui si parla di materiale biologico rinvenuto in più punti, di ottima QUANTITA' e qualità. Se è stato esaurito per approfondire le analisi nel tentativo di ricavare dalla traccia 31G20 gli aplotipi mitocondriali necessari per le relative comparazioni, perché ora, a posteriori, si sostiene che questi stessi DNA mitocondriali sarebbero del tutto irrilevanti ai fini forensi? Se sono irrilevanti questi DNA mitocondriali, perché si è consumato tutto il materiale biologico disponibile nel tentativo di ricavare tali profili mitocondriali? 4) Come è possibile che non ci si sia accorti che il profilo mitocondriale ricavato dalla traccia 31G20 appartenesse alla vittima e NON al soggetto denominato ignotouno? Eppure un determinato laboratorio, avvalendosi di una università specializzata nelle analisi mitocondriali della tracce biologiche miste e degradate, ha proceduto anche alle analisi mitocondriali di questi reperti. 5) Generalmente, nelle tracce biologiche (ancorchè miste e degradate) è molto più probabile che si riesca a ricavare gli aplotipi mitocondriali di determinati soggetti e NON i profili genetici nucleari agli stessi appartenenti, in quanto è fin troppo noto, nella letteratura scientifica, che la capacità di resistenza del DNA mitocondriale (in riferimento agli attacchi degli agenti atmosferici e dei liquidi del corpo in decomposizione) è nettamente superiore rispetto alla capacità di resistenza del DNA nucleare. Ebbene, nelle tracce di interesse investigativo, in cui è stato emarginato il DNA nucleare di “ignotouno”, inspiegabilmente, in seguito alle analisi a tal fine espletate, non è stato possibile ricavare lo stesso DNA mitocondriale dello stesso “ignotouno”. Questo INSPIEGABILE fenomeno scientifico si è verificato NON in una ma IN TUTTE (e sottolineo tutte) le tracce biologiche analizzate. 6) Dal punto di vista scientifico, vi sono diverse spiegazione che ASTRATTAMENTE possono giustificare il NON rinvenimento di un aplotipo mitocondriale in tracce miste degradate in cui è stato rinvenuto il profilo genetico nucleare appartenente allo stesso soggetto (le stesse vengono analiticamete illustrate anche dal Prof Previderè nella sua relazione depositata agli atti), ma, IN CONCRETO, nessuna di queste giustificazioni, valide sul piano epistemologico, si attaglia al caso di specie: più nel dettaglio, secondo i RIS di Parma la traccia 31G20, dalla quale è stato ricavato il profilo genotipico nucleare denominato “ignotouno”, NON è risultato essere positivo alla sperma, né, tanto meno, alla saliva. Per esclusione si è accertato che questo fluido fosse sangue. Come osservato dallo stesso prof Previderè nella precitata relazione, nella letteratura scientifica, allo stato attuale, NON è data riscontrare alcuna ipotesi in base alla quale in una traccia biologica mista (ancorché degradata) il sangue misto a sangue comporti la scomparsa in TUTTI I PUNTI ANALIZZATI (e sottolino tutti) dell'aplotipo mitocondriale di un soggetto di cui, nei medesimi punti, viene rinvenuto il profilo genotipico nucleare. Ergo, in letteratura, in casi analoghi al caso di specie, pare non esserci alcuna spiegazione squisitamente epistemologica a tale fenomeno, se non quella che quel materiale biologico da cui è stato ricavato questo profilo genotipico nucleare (ignotouno) sia di origine NON naturale o, in alternativa, che vi sia stato un errore decisivo in fase di analisi, amplificazione e/o interpretazione dei dati. La scienza, infatti, fornisce un dato statisticamente apprezzabile, corroborato dalla comunità scientifica nazionale e internazionale: la REGOLA è che in ogni traccia biologica mista (ancorchè degradata), in seguito alle relative analisi a tal fine espletate, se si riesce a ricavare il profilo genetico nucleare di un determinato soggetto (ignotouno) a maggior ragione (visto i differenti tempi di degradazione), nella medesima traccia, non si può non ricavare anche l’aplotipo mitocondriale appartenente allo stesso soggetto (ignotouno) . Come evidenziato nella sua relazione dallo stesso Prof Previderè, vi sono solo alcune ECCEZIONI a tale REGOLA generale ma tutte, in quanto tali, sono assolutamente CORROBORATE dalla comunità scientifica (ovvero, vi sono studi scientifici nazionali e internazionali che confermano tale eccezione, giustificandola sul piano scientifico) e nessuna di tali eccezioni può essere applicata al caso in esame. Ed infatti, pare d'obbligo evidenziare che, affinchè un’ ECCEZIONE ad una REGOLA scientifica possa considerarsi tale, essa necessita, inesorabilmente, delle relative conferme da parte della comunità scientifica di riferimento: in altri termini, se NON vi sono STUDI NAZIONALI O INTERNAZIONALI che giustifichino un determinato evento che SI RITIENE essersi estrinsecato nella realtà fenomenica, lo stesso evento non può assumere alcuna valenza epistemologica, cioè non può essere ritenuto come un’ ECCEZIONE alla regola e, in riferimento a quello stesso fenomeno (ASSERITAMENTE) concretizzatosi “in rerum naturae”, in realtà, non può non trovare applicazione la REGOLA generale. Allo stato, nella comunità scientifica di riferimento, in casi analoghi al caso in esame, NON pare esservi alcuno STUDIO NAZIONALE o INTERNAZIONALE che possa fornire, da un punto di vista squisitamente epistemologico, delle spiegazioni alle predette mortificazioni e lapidazioni delle leggi della natura. Se la pubblica accusa, nel corso del dibattimento, fosse riuscita a fornire delle giustificazioni acclarate dalla comunità scientifica di riferimento (si, ma attraverso degli STUDI SCIENTIFICI confermati dalla stessa comunità e NON di certo mediante delle spiegazioni alquanto risibili, frutto, evidentemente, dell'estro, della simpatia e della goliardia dell' “opinionista” di turno) allora questo elemento indiziario avrebbe potuto effettivamente assumere una pregnante valenza scientifica e, quindi, probatoria, ma visto che, come è noto, in dibattimento non è stato riscontrato alcuno studio nazionale o internazionale che potesse giustificare tutte le anomalie riscontrate, non può non valere la REGOLA generale, con l’inevitabile corollario che, nel caso di specie, solo due sembrano essere le spiegazioni scientificamente ipotizzabili: 1) o si è al cospetto di un profilo genetico ricostruito in modo errato (nel senso che vi è una NON coincidenza tra il “proprietario” del materiale biologico rinvenuto nei reperti e il “proprietario” del profilo genetico nucleare denominato “ignotouno”) 2) o, in alternativa, quel materiale biologico da cui è stato ricavato il medesimo profilo genetico nucleare (“ignotouno”) NON può considerarsi di origine naturale. Come sopra accennato, le predette conclusioni appaiono ancor più avvalorate da un ulteriore circostanza contrastante con l’ipotesi accusatoria e che rappresenta un’altra conferma dell’ insussistenza scientifica del teorema avanzato dalla pubblica accusa: l’aplotipo mitocondriale di “ignotouno” NON è stato rinvenuto non solo nella traccia 31G20 ma in nessuna delle molteplici tracce in cui è stato ricavato il suo profilo genetico nucleare. Circostanza, quest’ultima, lo si ribadisce, assolutamente NON spiegabile da un punto di vista scientifico, se non unicamente con le due predette ipotesi. 7) E’ emerso processualmetne che Yara e Bossetti non si sono mai conosciuti, appartenevano a due mondi completamente distinti e separate 8) In dibattimento è emerso come non vi sia alcun razionale movente che possa legare Bossetti Massimo al delitto ascrittogli. Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono, in qualità di cittadini, noi ci auspichiamo seriamente che, in fase di appello, si ripetano le analisi genetiche su questi reperti e che si faccia totalmente luce su tali aspetti scientifici. Solo ripetendo le analisi genetiche si potrà sgombarare il campo da questa ipotesi che a noi appare inquietante ma quanto mai realistica. Se non venissero concesse le perizie nemmeno in appello, noi riteniamo che un gravissimo vulnus ai diritti costituzonali di quest’uomo continuerebbe a perpetrarsi e sarebbe, a nostro avviso, forse il caso di malagiustizia più eclatante verificatosi nella storia giudiziaria del nostro Paese.
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Condannato Massimo Bossetti all’ergastolo, il processo per l’uccisione di Yara Gambirasio lascia irrisolti inquietanti misteri delle indagini che già nel 2014 avevo riassunto nel mio libro “Yara, orrori e depistaggi”. Nessuno, né il pubblico ministero né la difesa, aveva spiegato peraltro alla Corte d’Assise di Bergamo i motivi per i quali la polizia aveva ritenuto che Yara fosse viva fino a novanta giorni dalla sparizione della ragazza.
Fa paura questa sentenza, epilogo immaginabile di un processo svoltosi con acceso dibattito sul valore probatorio di un dna eloquente a doppio senso, schiacciante per l’accusa ma immondizia per la difesa: una controversia che ha contrapposto scienziati e lasciato dubbi atroci. Si deve dunque risalire alle modalità investigative che hanno fatto insorgere la questione, perché nella catena delle indagini bastava un solo elemento inquinato per indirizzare poi verso una precisa conclusione; inquinato da chi e perché non è diabolico ipotizzarlo, viste le qualità di taluni che indagavano e tenuto conto degli interessi che c’erano allora per risolvere il caso criminale. S’è voluto lasciare un silenzio tombale su questa dolorosa pagina, con la cautela di mass media che pur spettacolarizzando sugli schermi il delitto si son guardati bene dal vedere con occhio critico in ambienti istituzionali.
Non si può scommettere sull’innocenza o sulla colpevolezza di Massimo Bossetti e solo i successivi gradi di giudizio potranno dirci se l’assassino di Yara è proprio lui o se invece è uno sconosciuto rimasto impunito.
Salvo Bella
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L'elezione delle pentastellate Virginia Raggi e Chiara Appendino a sindaci di Roma e Torino ha causato un terremoto negli enti comunali insozzati per anni da ladronerie. Centri nevralgici per l’economia delle due città e per servizi importantissimi come i trasporti sono da decenni covi di clientele e malaffare, nei quali sistemare politici trombati e amici dei politici, con sfasci, soprattutto nella Capitale, che i cittadini non hanno tollerato più.
I due sindaci hanno un mese e mezzo di tempo per nominare i rappresentanti del Comune in molte istituzioni e già dalla campagna elettorale di Raggi e Appendino era emerso chiaramente che una volta per tutte ci sarebbe stata pulizia, secondo le linee guida del Movimento Cinque Stelle, che, attorno a Beppe Grillo, dell’onestà e della lotta contro la corruzione ha fatto la sua principale bandiera. Il compito dei nuovi sindaci, che dovranno nominare persone di chiara e provata competenza, è agevolato dalle dimissioni, date o annunciate, di alcuni manager, i quali sapevano che sarebbero stati sostituiti: la pulizia è cominciata.
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La spedizione di una busta di libri è rifiutata da Poste Italiane se nell’etichetta è dichiarato che contiene anche una lettera regolarmente affrancata: questa è la massima che si ricava da una risibile controversia sorta all’ufficio di Cerro Maggiore (Milano), dove si afferma che la lettera può viaggiare solo separatamente dai volumi, mentre il sito web delle Poste chiarisce, al contrario, che il cosiddetto “piego di libri” può co...ntenere anche un gadget oppure una lettera a condizione che la stessa non superi i 20 grammi e sia affrancata come “posta 4 pro” (già “prioritaria”).
La spedizione a tariffa agevolata come “piego di libri” ispezionabile è stabilita per legge e può essere effettuata da chiunque in tutti gli uffici postali. Viene considerata corrispondenza universale, che per tale tipologia dev’essere obbligatoriamente accettata agli sportelli. I plichi possono contenere anche una fattura o un bollettino postale, senza costi aggiuntivi.
La possibilità di aggiungere a pagamento una lettera non è nuova ed è spesso necessario ricorrerci da parte del mittente, come nel caso della partecipazione a premi e concorsi letterari, che richiedono l’invio dei libri insieme con un foglio contenente gli indispensabili dati identificativi del partecipante.
Il 6 giugno l’ufficio postale di Cerro Maggiore ha rifiutato di accettare un plico siffatto da spedire per raccomandata e presentato dalla casa editrice Gruppo Edicom, che ha subito presentato circostanziati reclami. La segnalazione ha sortito un intervento tempestivo da parte di Poste Italiane, che tuttavia non ha ancora chiarito il problema: la prima risposta è che si può fare solo se la lettera è già affrancata dal mittente ma con affrancatrice automatica anziché con francobolli.
Non è la prima volta che spediamo in tal modo e non abbiamo avuto mai un problema di tal genere. Il plico intanto resta fermo, come se una lettera allegata ad alcune opere letterarie fosse una bomba esplosiva.
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Il processo che si celebra alla Corte d’Assise di Bergamo non ha chiarito i misteri che avvolgono ancora, dopo oltre cinque anni, il caso criminale di Yara Gambirasio. Il pm Letizia Ruggeri non ha dubbi sulla colpevolezza di Massimo Bossetti, ma nella prima parte della requisitoria, ripercorrendo l’evoluzione delle indagini, ha ricordato “Ci spaccammo la testa. Ipotizzammo di tutto, dallo scambio di persona al rapimento”. Resta come un macigno il fatto che per ben tre mesi (dal 26 novembre 2010, giorno della sparizione a Brembate di Sopra, al 26 febbraio 2011, data del ritrovamento del cadavere in un campo incolto di Chignolo d’Isola) gli inquirenti sostennero che Yara era viva e l’avrebbero riportata a casa. Che fine hanno fatto quelle “prove”?
Ma il processo si avvia all’epilogo con la richiesta annunciata di condanna all’ergastolo, dopo innumerevoli udienze con confronti accesi tra accusa e difesa che non sono bastati a fare chiarezza su consistenti lacune, già riassunte due anni fa nel mio libro “Yara, orrori e depistaggi”. Domani 18 maggio 2016 per Bossetti, in carcere dal 14 giugno 2014, sarà il giorno più terribile: come reagirà alle conclusioni della requisitoria del pubblico ministero?
Fra dna che per una parte sembra inchiodare l’imputato e un’altra che contraddice la prima, furgoni cassonati e aperti, persone strane che si aggiravano accanto alla palestra dalla quale Yara uscì per sparire fulmineamente senza essere vista, non c’è stato al processo un testimone che in quella tragica sera avesse notato la ragazza, da sola o con qualcuno, o che avesse sentito urlare: com’è possibile? Tuttora le lesioni riscontrate poi sul corpo sono difficilmente riconducibili all’azione di un predatore, che per chilometri avesse trasportato Yara restando alla guida di un furgone e contrastando le reazioni della vittima. Lo stesso movente sessuale non è suffragato da elementi importanti. Vittorio Feltri, che non è solito fare sconti ad alcuno, in un nuovo articolo su liberoquotidiano.it ribadisce questi e altri dubbi; e spiega perché Massimo Bossetti andrebbe assolto, come sostengono i suoi difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che svilupperanno le arringhe conclusive.
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