Questo sito utilizza cookies tecnici propri e cookies di profilazione di terze parti. Continuando la navigazione accetti.    MAGGIORI INFORMAZIONI

 

Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

Daniele Ughetto Piampaschet

La storia di Daniele Ughetto Piampaschet è davvero straordinaria. Una metafora uroborica di quello che è la sentenza stessa su base indiziaria: un romanzo scritto talmente bene che i cerchi si chiudono con la condanna di un soggetto, indipendentemente se sia colpevole o innocente. Dalla condanna del romanzo di Piampaschet, poi assolto in un ghirigoro processuale (ancora da definirsi) alla maniera del processo Meredith, passiamo scivolando sul serpente che si morde la coda alla condanna di un intero sistema processuale, letterariamente fondato su indizi e non su prove rigorosissime come il neo processo popperiano richiederebbe (leggere Inutilizzabili contro Bossetti le tracce di Dna).

La ricerca degli autori di delitti è molto più complicata di quanto vogliono farci credere. In tale prospettiva il processo indiziario ha la comoda funzione di chiudere falle ineliminabili, col rischio di mettere dentro innocenti.

Ho provato a sollevare vanamente questione d’incostituzionalità del processo indiziario (art. 192, 2° co. c.p.p.) e oggi invito avvocati e magistrati a riproporre la questione dopo l’introduzione della formula del ragionevole dubbio. Ogni processo indiziario per sua natura crea ragionevoli dubbi. I processi vanno fatti per essere sicuri di una giustizia giusta solo per prove fortissime.

Ma torniamo a Piampaschet e ricostruiamone la storia più che mai incredibile ma illuminante sul come nel processo indiziario si peschi dappertutto pur di affermare come vera quella che è solo una congettura.

 

Il cacciatore di anoressiche
e l’omicidio annunciato in un libro

Marco Mariolini "Il cacciatore di anoressiche"

Ossessione e delitto sono stati gli elementi del terrificante caso di Marco Mariolini, l’antiquario di Pisogne che il 14 luglio 1998 uccise a Intra con ventidue coltellate, sul Lago Maggiore, la studentessa Monica Calò di Domodossola. L'assassino aveva annunciato un anno prima l’omicidio nel libro choc "Il cacciatore di anoressiche" (Gruppo Edicom), ma nessuno lo fermò. Dal libro è stato tratto il film "Primo amore" di Matteo Garrone, premiato al Festival internazionale di Berlino.

La vicenda si svolge a Torino.

è il 28 novembre 2011. La giovane prostituta nigeriana Anthonia Egbuna sembra essere svanita nel nulla. Viene ritrovata cadavere sul greto del Po tre mesi più tardi, il 26 febbraio 2012, all’altezza di San Mauro Torinese.

Apparentemente sembra trattarsi di suicidio, ma l’autopsia rivela che sul corpo, in avanzato stato di decomposizione, sono state inferte ben venti coltellate.

Le indagini portano al suo amico Daniele Ughetto Piampaschet, aspirante romanziere accusato dell'omicidio che avrebbe poi raccontato nei suoi libri.

Lo scrittore viene arrestato nell'agosto 2012, di ritorno da Londra, dov’è stato volontario alle Olimpiadi.

L’accusa ricostruisce dai tabulati telefonici che Anthonia e Pampaschet si conoscevano: le comunicazioni si erano interrotte il giorno prima della scomparsa della donna.

Ma il dato chiave è il rinvenimento nella casa dello scrittore del romanzo La rosa e il leone insieme al racconto Il braccialetto di corallo. Gl’inquisitori solerti ne estrapolano alcune frasi che conterrebbero "una confessione extragiudiziale" e precisamente: "La sua uccisione era l'unico modo per preservare intatta la purezza. In questo modo nessuno avrebbe saputo più nulla del mistero di bellezza della piccola Anthonia... Poi l'avrebbe caricata in macchina e l'indomani sera seppellita. Così avvenne. L'uccise e la seppellì in un punto solitario in mezzo ai boschi di Giaveno”. E nel racconto Il braccialetto di corallo: “La odiavo e la amavo, più di ogni creatura vivente. L’omicidio era la logica conseguenza di un percorso di vita al di fuori dei binari”.

Se nella Rosa e il leone la donna vien fatta fuori a fucilate le cose cambiano nell’altro racconto La morte della sirena, dove l’omicida usa il coltello come nell’assassinio reale di Anthonia: “Era stata ingoiata dalle acque del fiume. Era morta di una morte atroce, accoltellata. Eppure lui, a distanza di giorni, non provava né pentimento né rimorso. Non riusciva a perdonarla”.

L’indiziato si dichiara innocente. Afferma che con Anthonia aveva intrecciato una relazione sentimentale che era finita ma soltanto per trasformarsi in un’amicizia sincera e profonda. “Le volevo bene - giura - e non avevo motivo di farle del male. Non ne sarei nemmeno stato capace”.

Passando a dati più materiali ritorna la traccia DNA, che però finalmente viene smentita nella sua onnipotenza che ha fondato la condanna di Bossetti. Sull’auto di Piampaschet viene trovata una macchia di sangue: è il DNA di Anthonia.

Caso finalmente chiuso? Nemmeno per sogno! Il giovane lo giustifica con l’attacco subito in auto ad opera dei lenoni della nigeriana per i suoi tentativi di strapparla a loro. La ragazza sarebbe stata ferita nell’occasione. E’ vero che non ha denunziato gli aggressori, ma riferì l’episodio a un amico, fornendo anche un referto medico atto ad avvalorare la circostanza.

Alla fine si difende sostenendo che Anthonia è stata punita per avere tentato di ribellarsi e uscire dal giro della prostituzione. L’omicidio della ventenne sarebbe stato perpetrato dalle organizzazioni criminali nigeriane in quanto lei si sarebbe voluta affrancare dal mondo del meretricio.

Nello specifico sarebbe provato da numerose operazioni di polizia e da svariati dossier come le lucciole nigeriane siano forzate a stare sul marciapiede dagli stregoni vodoo, i quali si avvalgono delle loro minacce di morte e riduzione a zombie per costringerle a prostituirsi.

A ulteriore riprova di piste alternative, il difensore ha prodotto tabulati della vittima col numero di telefono di un nigeriano, che la sentiva con maggior frequenza di Ughetto. Ancora, dai tabulati risulterebbe che Piampaschet si trovava lontano dal luogo dell’avvenuto delitto. Infine l’avvocato ha prodotto in tribunale ulteriori racconti scritti dell’imputato, a riprova che il narrare posto a base dell’incriminazione era frutto di mere coincidenze.

La Procura di Torino è convinta, invece, che ad uccidere Anthonia sia stato proprio Piampaschet, in un raptus di gelosia, quando lei si era rifiutata di lasciare la strada per seguirlo.

L’incriminato passa un periodo in carcere fino all'assoluzione in primo grado, il 9 aprile 2014. Assolto per non aver commesso il fatto.

La sentenza è però ribaltata dalla Corte d'Assise d'Appello di Torino, che il 30 giugno 2015 lo condanna a 25 anni e mezzo di prigione. In pratica Piampaschet viene condannato perché ha anticipato il delitto in un suo romanzo.

Ultimo atto (speriamo!): la prima sezione penale della Cassazione dispone l'annullamento con rinvio della sentenza. Si celebrerà, dunque, un nuovo processo d’appello davanti ad un'altra sezione della stessa Corte torinese.

Gennaro FrancioneLa vita è piena di coincidenze, interferenze, dannate occasioni in cui un soggetto fisicamente o messaggisticamente s’incrocia con chi poi verrà ucciso. Da quelle orrende intersecazioni l’indiziario medioevale, in mancanza di prove certe, acquisisce dati per condannare il maggior indiziato di turno venuto sotto tiro, per lo più un parente, un amante, un amico (come nel caso di Ughetto che ha avuto contatti più o meno stretti e ravvicinati spazio-temporalmente con la vittima. Questo come se il mondo non fosse gravido di incontri anche casuali ovvero come se non ci fossero contatti che sfuggono alla messaggistica o all’immancabile telecamera di turno che di sicuro non potrà mai inquadrare tutto il mondo reale.

Nel caso Piampaschet, quanto all’indizio della morte anticipata nel romanzo, non posso fare a meno di ricordare due casi di spettacolari coincidenze tratte dalla storia della letteratura, narrate nel mio saggio L'arte di Kobal, il Nero Esteta, ovvero bizzarrie di mondi letterari anomali (Analisi della trance spiritica in letteratura ovvero della creazione artistica come frutto di una comunicazione medianica, Aetas Internazionale, giugno 1999. http://www.antiarte.it/urobornauta/l'arte_di_kobal.htm).

In materia di relazioni paranormali tra libri ed eventi, un caso veramente straordinario fu quello dello scrittore americano Morgan Robertson. Nel suo libro Futility, pubblicato nel 1898, egli riferiva l’affondamento di un gigantesco piroscafo, il Titan, preconizzando quello reale del transatlantico Titanic, avvenuto il 15 aprile 1912. Oltre alla straordinaria somiglianza del nome, il libro riferiva altri particolari (collisione con un iceberg nell'Atlantico settentrionale, il mese della disgrazia, il numero insufficiente delle scialuppe, la velocità, il tonnellaggio, la lunghezza, il numero delle eliche della nave) di coincidenza pressoché assoluta e straordinaria. La circostanza veramente incredibile comunque era che un giornalista e scrittore inglese, William T. Stead, pubblicò nel 1883 un racconto preveggente dello stesso tipo sul Titanic, con la differenza malaugurata che egli stesso perì nel naufragio reale del transatlantico!

Ma in più stretta relazione col caso Piampaschet citeremo la vicenda di Arthur Conan Doyle, ispirato in un suo racconto da una locanda vista in Svizzera. Si narrava dell'oste che decideva di uccidere il primo straniero capitato nel locale per derubarlo. Scoprì poi che la stessa vicenda, accaduta realmente nello stesso luogo, era stata narrata in un racconto di Guy de Maupassant e in una tragedia del tedesco Zacharias Werner, dal titolo Il ventiquattro febbraio (1810). Ben tre scritture in epoche diverse, dunque, furono ispirate dallo stesso fatto reale!

Là si tratta di romanzi precognitivi, ma quale rilievo probatorio si può attribuire per il Piampaschet al racconto coincidente della tragedia capitata a una propria amica? Si sa che lo scrittore attinge da tutto, non solo dalla sua fantasia da veggente, ché anzi il reale supera spesso qualunque immaginazione, sia che lo si sia vissuto, sia che si traggano conseguenze probabili da accidenti delittuosi ancora in corso (nel nostro caso gli attacchi dei nigeriani).

Quindi, nessuna prova che il romanzo di Piampaschet fosse una confessione extragiudiziale e non invece il racconto dolorante della morte sopravveniente per mano altrui della povera amica Anthonia.

Per concludere, osservando l’andamento del processo, sembra qui riperpetrarsi l’oscillazione terribile tra verdetti contrapposti che già caratterizzò il caso Meredith Kercher con ben sette gradi di giudizio (altro che i tre gradi canonici!) fino all’assoluzione finale di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Assoluzione in primo grado per Piampaschet, condanna in appello, annullamento e rinvio della Cassazione ad altra Corte. Ma, intanto, un presunto innocente si fa due anni di carcerazione preventiva.

E poi l'eterno dilemma: come si può essere condannati in appello quando sugli stessi elementi si è stati assolti in primo grado. Non è l'assoluzione di per sé segno di un ragionevole dubbio che impedirebbe i gradi successivi?

Il balletto giudiziario non è ultimato. Ma tanto ci basta per avere sempre più la consapevolezza che questo sistema di alternanze fondate su indizi va smantellato e che in caso di assoluzione va imposto nei gradi di giudizio il divieto di reformatio in peius. Citando me stesso: “Alle indagini umane le tombe sono un limite. E la prima tomba della Temi Giusta è il processo indiziario quando non sfoci in prove fortissime”.