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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

poliziotti uccisi a Trieste

Bontà da un lato e vigliaccheria dall’altro sono le due facce della tragica uccisione dei due poliziotti alla questura di Trieste: morti non da eroi, come si vorrebbe sostenere, e nemmeno vittime di imprevedibile follia; ma uomini normali, prima che tutori dell’ordine, che semplicemente immaginano nel prossimo i princìpi di rispetto umano sui quali fondano la propria vita; e anche martiri di un sistema alla chetichella, incapace di fare ammenda e di provvedere.

L’imprevedibilità della ferocia con la quale un criminale - che ora si vuol far passare per pazzo - si è accanito contro gli agenti Pierluigi Rotta e Matteo De Menego non spiega apparentemente la convulsa dinamica di una aggressione che ha dell’incredibile e non spiega nemmeno il panico dei minuti successivi. Una polemica scatenata da sindacati di polizia sulla inadeguatezza presunta delle fondine in dotazione ai poliziotti disarmati dall’aggressore fa da paravento ai veri problemi; e in uguale misura finiscono con l’essere fuorvianti le divagazioni di chi dall’alto si limita a dichiarare che non si sa, perché mancano testimoni oculari, quasi che la strage sia stata compiuta in una trazzera solitaria anziché all’interno di una grande questura italiana.

La verità potrebbe essere ben diversa, perché due poliziotti non dovrebbero mai finire sopraffatti nemmeno da un energumeno.

 

Una sequenza di sangue dall’inizio dell’anno

Trieste allunga una sequenza di sangue che solo quest’anno ha avuto altre quattro vittime: il 13 aprile a Cagnano Varano, in provincia di Foggia, il maresciallo dei carabinieri Vincenzo De Gennaro durante il controllo di un pregiudicato in auto; il 16 giugno a Terno d’Isola, in provincia di Bergamo, l’appuntato dei carabinieri Emanuele Anzini a un posto di blocco; il 27 luglio a Roma il vice brigadiere Mario Cerciello Rega durante una stramba operazione per la cattura di un estortore.

Un quadro allarmante di gravi carenze

Nessuno di loro stava compiendo alcunché di ardimentoso. Perché dunque chiamarli eroi? Perché le istituzioni riescono solo in tal modo a spostare l’attenzione dalle falle gravi di un sistema di formazione dei tutori dell’ordine che è all’acqua di rose: in materia di valutazione del pericolo e di metodi di difesa sono carenti o mancano infatti del tutto gli addestramenti, limitati agli appartenenti a corpi speciali. Il quadro è allarmante considerando infine i limiti gravi che sono imposti da norme ridicole ai tutori dell’ordine a partire dall’esposizione delle armi di ordinanza, nell’uso di minimi mezzi coercitivi come le manette e persino delle camere di sicurezza.

Li teniamo disarmati e poi sono “eroi”

Li teniamo come disarmati e poi li piangiamo come “eroi” invece che come martiri.

Non sono perciò, dunque, nemmeno responsabilità che possano essere attribuite a poveri questori, funzionari che in pratica devono quasi solo garantire l’amministrazione corretta del personale procedendo, quando occorre, anche disciplinarmente; ma privi di alcuna attribuzione per far crescere le qualità professionali dei subordinati, che sono competenze organizzative strutturali di vertici più alti e soprattutto della politica.