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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

Palazzo di giustizia MilanoI pesanti attacchi “a tratti deliranti” rivolti su Facebook a un giornalista, anche associandolo a una “sponda mafiosa”, non sono lesivi “della reputazione di un professionista intellettuale”: con questa motivazione il gip di Milano Natalia Imarisio ha archiviato un procedimento intentato dal giornalista e scrittore Salvo Bella per diffamazione aggravata contro ventinove persone.

I fatti risalgono al 2017, allorquando gruppi di innocentisti scatenarono una scorribanda di insulti contro cronisti che avevano firmato articoli sulla condanna di Massimo Bossetti per l’uccisione di Yara Gambirasio. Gli attacchi non risparmiarono neanche i giudici.

Facebook, alla quale si era rivolta la magistratura, non ha fornito informazioni per l’identificazione delle persone querelate, poiché negli Stati Uniti la diffamazione non costituisce reato e in più i dati delle connessioni vengono conservati dalla società americana solo per novanta giorni, ormai ampiamente trascorsi a causa delle lungaggini della giustizia. Ciò aveva indotto quest’anno il pm a chiedere l’archiviazione, contro la quale si è opposto il giornalista, sostenendo che potevano essere svolte altre indagini e fornendo egli stesso i dati identificativi di alcuni dei presunti responsabili.

Secondo il gip, però, nella vicenda il limite di tollerabilità degli insulti si innalzava perché in un articolo sull’omicidio Gambirasio il Bella aveva assunto “una posizione netta”: in realtà aveva solo scritto, condividendole, delle motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’appello di Brescia aveva confermato la condanna di Massimo Bossetti all’ergastolo. Da un lato, dunque, il giornalista può essere insultato; e dall’altro le “accuse”, si legge nella motivazione, “sono (oltre che per la forma talora talmente sgrammaticata da essere scarsamente intelleggibile), per il loro contenuto abnorme – a tratti delirante o in alternativa chiaramente provocatorio – come quando la parte offesa viene associata alla sponda mafiosa – e per il contesto – certamente non professionale – in cui sono state espresse, talmente poco credibili e/o comprensibili da non risultare in concreto lesive della reputazione di un professionista intellettuale”; come dire: tu sei un professionista, mica puoi prendertela se a insultarti sono dei cialtroni!

Il giudice ha inoltre ritenuto che “con riferimento alle espressioni insultanti nei confronti di soggetti svolgenti attività di ampia risonanza pubblica la Suprema Corte ha riconosciuto la non riconducibilità al delitto di diffamazione quando non risulti con certezza che l’autore del fatto abbia inteso riferirsi alla persona in sé e non al suo comportamento come uomo pubblico”. La sentenza si riferiva tuttavia a una diatriba fra politici investiti di incarico pubblico in un Comune, anziché a un fatto di cyberbullismo contro il giornalista autore di articoli su una sentenza penale di condanna per omicidio.

Dall’ordinanza di archiviazione firmata a Milano sembra infine che gli insulti non possano ledere l’immagine di un giornalista e scrittore se è “un professioinista intellettuale”, una discriminante che sembra paradossale ed è destinata a suscitare polemiche: la professione sarebbe a rischio, infatti, se passasse il concetto che orde di facinorosi scalmanati, anche pregiudicati, possono insultare e minacciare liberamente i cronisti senza finire a processo.