Giunge martedì in Cassazione l’omicidio di Pietro Sarchié, il pescivendolo di San Benedetto del Tronto assassinato il 18 giugno 2014 per rivalità di mestiere, allo scopo di far propri i suoi clienti. Il procuratore generale di Ancona aveva impugnato l’anno scorso la sentenza di secondo grado, con la quale il catanese Giuseppe Farina è stato condannato all’ergastolo e il figlio Salvatore a vent’anni perché al momento del delitto era giovane: una motivazione che ha suscitato scalpore e non rende giustizia, per i motivi abietti del delitto e per le atroci modalità di esecuzione.
Secondo le risultanze processuali, vittima e assassini si conoscevano solo lontanamente e non avevano mai avuto alcun rapporto. Pietro Sarchié sparì durante uno dei suoi spostamenti nel giro di visite ai clienti; e le indagini furono parecchio tormentate, poiché a lungo gli inquirenti credettero all’ipotesi di un allontanamento volontario. Il cadavere fu ritrovato a distanza di tempo, seppellito in una campagna ai margini di una strada intercomunale, e le indagini permisero di risalire agli autori del delitto.
L’omicidio, secondo i giudici, fu organizzato meticolosamente dagli imputati, che seguirono Pietro Sarchié per studiare modalità e luogo più agevoli per bloccarlo e lo uccisero a colpi di pistola. Padre e figlio (il primo reo confesso) furono condannati in primo grado entrambi all’ergastolo, ma la pena è stata ridotta in appello a vent’anni per Salvatore; ora chiedono un nuovo processo: il padre perché sia esclusa la premeditazione, con riduzione di pena, il figlio per essere assolto.
I familiari del pescivendolo, come il procuratore generale, chiedono che non ci siano sconti e si sono costituiti con gli avvocati Nicodemo Gentile e Daniele Fabrizi.