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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

giallo di garlascoIl 2016 si chiude lasciandoci davanti misteri e domande inquietanti. Su molti delitti si attende ancora di fare piena luce e giustizia; ci sono innocenti lasciati in carcere e assassini in libertà; dubbi atroci sulla bontà di prove “scientifiche” che vanificano le indagini tradizionali; persone assassinate delle quali non si riesce nemmeno a trovare i corpi.

 

A chi cerca verità e a chi vuole nasconderle, auguri!

Il 2016 sta per concludersi annunciando una svolta nel giallo dell’uccisione di Chiara Poggi, uccisa nove anni fa a Garlasco dal fidanzato Alberto Stasi. I botti di fine anno sono di speranza per l’unico condannato, che si protesta innocente, di relativa ansia per il nuovo indagato e di spauracchio per la donna che potrebbe finire al centro delle indagini dopo che il suo nome è stato segnalato agli inquirenti da “Il Delitto”.

Il ricordo commosso va a Chiara Poggi, vittima innocente di un brutale massacro; ma il pensiero è anche per chi s’è potuto trovare anche suo malgrado implicato in un meccanismo perverso o può esserne rimasto vittima, come il maresciallo Francesco Marchetto, per impedirgli di fare piena luce. Auguri a chi sa e parla; a chi sapendo ha scelto di tacere; a chi ancora cerca la verità sul giallo di Garlasco e a chi si è mosso o si adopera tuttora per nasconderla; a chi si è rovinato e a chi eventualmente si è arricchito; a chi indagò male e a chi dovrebbe farlo finalmente, nel 2017, bene e sino in fondo.

Auguri alla famiglia di Yara Gambirasio, morta per mano vile; a Massimo Giuseppe Bossetti che reclama giustizia; a coloro che cercano ancora i corpi di parenti assassinati; a tutti quanti cercano, come noi, verità, sperando in un 2017 migliore. 

Se si escludono pochi casi fortunati, di rei sorpresi con la pistola fumante ancora in mano, i dodici mesi trascorsi sono serviti a far capire che la procedura penale è rimasta obsoleta e va fallendo sempre di più. In epoca di comunicazione ultra avanzata, nella quale le informazioni viaggiano alla velocità della luce o del suono, ci sono uffici giudiziari che ancor oggi scrivono a registro le notizie di reato a distanza di parecchi mesi dalla ricezione, con la conseguenza che atti urgentissimi finiscono ritardati e frattanto si disperdono le prove dei reati.

 

Si discute da decenni della lentezza della giustizia, ma non si dice dello scellerato meccanismo in base al quale i carabinieri e la polizia che ricevono una denuncia - anche di reati molto gravi - nella maggior parte dei casi si limitano a inoltrare una informativa alla magistratura, per attendere poi che sia l’autorità giudiziaria, che deve dirigerle, a disporre indagini. Fin quando permangono tali nefasti giri burocratici fra polizia e autorità giudiziaria non si può ben sperare in investigazioni tempestive ed efficaci.

L’evoluzione della scienza e dei mezzi di indagine ha permesso da un lato di cercare riscontri che solo potenzialmente sono obiettivi, dal momento che i risultati spesso ambigui possono essere interpretati in modi opposti. I processi più discussi degli ultimi tempi confermano in sostanza che la ricerca della verità passando per laboratori, periti, consulenti e criminologi, che si sovrappongono l’un contro l’altro armati, vanifica il senso della prova testimoniale; e il tutto è anche sorretto da un giro d’affari di parcelle e soprattutto spese di giustizia - cioè pagate dal contribuente - diventato astronomico. Il risultato è che si tende a non comminare ergastoli - ed è bene che sia così - in processi indiziari, ma si finisce col non poterlo fare attraverso artificiosi prelievi e analisi di dna senza che rimangano atroci dubbi. I casi che ce lo insegnano sono molti, a partire da quello estremamente controverso che riguarda Massimo Giuseppe Bossetti, condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio, per finire con quello di Alberto Stasi, condannato per l’uccisione della fidanzata Chiara Poggi. Bossetti, ancora in attesa di appello, è in carcere per una traccia di dna che solo l’accusa ha potuto analizzare; Stasi è condannato in via definitiva, ma solo ora sotto le unghie della vittima è stato trovato il dna di un’altra persona, che viene indagata, e spunta pure il nome di una donna vista a Garlasco con una bicicletta nera nell’ora e nel luogo del delitto.

In questo bailamme, per restare al caso Poggi, la dice lunga per esempio la condanna del maresciallo Francesco Marchetto per falsa testimonianza. Il sottufficiale comandava la stazione dei carabinieri di Garlasco e svolse le prime indagini. La motivazione della sentenza di condanna, appena depositata, gli addebita la “eliminazione di una fonte di prova” proprio per aver sequestrato una bicicletta nera diversa da quella poi “scoperta” a distanza di anni, così determinando l’assoluzione di Stasi nei primi due gradi di giudizio. Non si comprende perché mai Marchetto dovesse eludere una fonte di prova, dal momento che proprio lui avrebbe voluto porre subito in stato di fermo il giovane allora sospettato, nel corso di un interrogatorio gestito in caserma da altri con modalità irrituali. Fra i motivi della condanna vengono anche proposti in modo curioso alcuni comportamenti del maresciallo che non possono scandalizzare gli addetti ai lavori: si recò da un medico a chiedergli informazioni, lo fece in abiti borghesi e non scrisse nulla del fatto. Da quando in qua accade che un investigatore esperto, qual era Francesco Marchetto, vada in giro sempre in divisa e passi il tempo a riempire carte probabilmente inutili?

Come si dice a Napoli, adda venì baffone.